Dei tre libri finora scritti da Carlos Castaneda e pubblicati in Italia dall'editore Ubaldini quest'ultimo intitolato Viaggio a Ixtlan è il più importante. Voglio spiegare ed esemplificare questa sua importanza. Nei suoi libri come è noto il giovane sudamericano ha raccolto gli insegnamenti di un uomo molto saggio e intelligente di nome Juan Matus, un mezzo indiano di Sonora maestro anche nell'arte di articolare il proprio pensiero nella propria lingua, che è lo spagnolo. Come tutte le persone di condizione modesta nell'America spagnola Matus viene chiamato con il prefisso “don” che equivale piuttosto al “signore” nostrano nelle sue varie versioni locali, e appunto perciò il libro porta come sottotitolo «Le lezioni di don Juan». Epitome straordinariamente acuta di quella Weltanschauung stoico-wittgensteiniana che è patrimonio comune dell'antico innesto indiano-spagnolo e come tale perdura – non sempre esplicito e comunque sempre meno esplicito – dal sudovest degli Stati Uniti fino allo stretto di Magellano, Juan Matus, non senza riluttanza a quanto pare, si è preso il giovane Castaneda come discepolo e per ben dieci anni, a intervalli non regolari, gli ha fatto il dono di insegnargli a vivere. Non è detto che Castaneda abbia imparato a vivere, ma nel corso di quegli anni ha preso molti appunti su quanto il maestro gli andava dicendo e di questi appunti son fatti i suoi tre libri. Il terzo è quello che conta perché soltanto alla fine l'allievo ha cominciato a capire quale fosse il vero insegnamento del suo maestro di vita.
Nei due volumi precedenti questo insegnamento era piuttosto oscurato dal peso che Castaneda conferiva a un fatto tutto sommato secondario, e cioè che Matus ama definirsi “stregone” e com'è nella tradizione indiana del Nordamerica non disdegna in circostanze particolarissime l'uso di sostanze naturali psicotrope altrimenti dette allucinogene. È così che il discepolo ha dedicato in gran parte i primi due libri a questa sua frequentazione della droga e alle sue conseguenze psichiche trascurando il per noi, e anche per lui, ben più prezioso insieme morale della educazione stoica che gli veniva intanto impartita oralmente e che soltanto adesso egli ha saputo riscattare dai suoi appunti inediti. Sono sempre le parole di don Juan, per fortuna conservate, ma sono quelle che più ci interessano: quel che va detto a un debole giovane della civiltà industriale per farne un uomo.
Purtroppo di questi testi si sono a quanto sembra impossessati, travisandoli, alcuni tra i più noti mistificatori della nostra industria culturale politica – qualcuno vi appare perfino in risvolto di copertina – i quali si sono provati a far credere che in realtà si trattava di altro, ciascuno nella propria direzione aziendale; sono persone frivole e tetre, che una sola risata del filosofo indospagnolo ridurrebbe in polvere. Dispiace comunque vedere il loro nome in qualche modo associato a questo bel libro. Di cui si può magari dare una prima idea riportando dal discorso unitario qualche detto isolato.
Dice don Juan Matus: «Io personalmente amo la libertà ultima di essere sconosciuto: nessuno mi conosce con certezza costante. Non ho nessuna storia personale: un giorno ho scoperto che la storia personale non mi era più necessaria e l'ho abbandonata, come il bere. La gente quasi mai capisce che possiamo tagliar via dalla nostra vita qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, proprio così, come si schioccano le dita». In questo mondo abbiamo due sole alternative: o prendiamo tutto per certo e reale, o no. Se seguiamo la prima, alla fine siamo annoiati a morte del mondo e di noi stessi. Se seguiamo la seconda, creiamo intorno a noi una nebbia, uno stato molto eccitante e misterioso: quando nulla è certo, rimaniamo sul chi vive, perennemente attivi.
Fin dall'inizio il maestro osserva che, se l'allievo vuole davvero imparare, dovrà rimodellare l'intero suo comportamento. Per incominciare si prende troppo sul serio: anche la presunzione è da abbandonare, come la storia personale. Gli amici pure, quelli che ci hanno conosciuto da lungo tempo, bisogna abbandonarli, in fretta. Dobbiamo ricordare che la morte esiste: «Come ci si può sentire tanto importanti quando sappiamo che la morte ci dà la caccia? Ti sbarazzi di una enorme quantità di meschinità se la tua morte ti fa un gesto, o se ne cogli una breve visione, o se soltanto hai la sensazione che la tua compagna è lì che ti sorveglia». Ogni volta che sentiamo che tutto va male e che stiamo per essere annientati, dobbiamo voltarci verso la nostra morte e domandarle se è vero; la morte ci dirà che non è vero, che nulla conta veramente al di fuori del suo tocco.
Alla domanda: come ha fatto a imparare tante cose?, Matus risponde che le sa appunto perché non possiede una storia personale, perché non si sente più importante di nessuna altra cosa e perché la sua morte è sempre seduta accanto a lui. L'allievo, invece, si sente immortale, e le decisioni di un uomo immortale possono essere cancellate o rimpiante o messe in dubbio. Ma in un mondo dove la morte è sempre a caccia, non c'è tempo per rimpianti o dubbi, c'è solo tempo per le decisioni.
L'allievo deve imparare a diventare anche lui un cacciatore. Essere un cacciatore significa conoscere molte cose, significa che si può vedere il mondo in molte maniere; richiede però che si sia in perfetto equilibrio con ogni altra cosa, altrimenti cacciare diventa un lavoro senza senso. L'allievo deve inoltre imparare a diventare un guerriero; ancora non è né una cosa né l'altra, è soltanto un ruffiano, per conto di qualcun altro. Le battaglie che combatte sono le battaglie di qualche persona sconosciuta: in realtà non vuole imparare a conoscere le piante, né a cacciare, né niente: la sua vita è una goffa idiozia. A questo punto l'allievo comincia a capire e si mette a piangere.
Bisogna sottrarsi, il che non significa nascondersi o vivere segregati, ma essere inaccessibili: «Non serve a niente nascondersi se tutti sanno che ti nascondi». Essere inaccessibili vuol dire toccare il mondo intorno a noi moderatamente: non usare la gente, soprattutto se la si ama; non mangiare cinque quaglie, mangiarne soltanto una. Il cacciatore è inaccessibile perché non spreme il mondo fino a deformarlo. Il vantaggio del cacciatore è che non ha abitudini: è libero, fluido, imprevedibile.
Bisogna sempre agire come se fosse la nostra ultima battaglia sulla terra; questo ci rende attenti alla natura dei nostri atti, quindi, felici, finché agiamo nella piena conoscenza di non avere tempo, perché quell'atto può essere benissimo l'ultimo nostro atto sulla terra. Il mondo è stupendo, imponente, misterioso, insondabile, e dobbiamo assumerci la responsabilità di essere qui, in questo mondo meraviglioso, in questo tempo meraviglioso. Non rispondere a una tale sfida è come essere morti. Non serve a nulla essere tristi, lagnarsi e pensare che la lagnanza sia giustificata: credere che qualcuno ci faccia sempre qualcosa. Nessuno fa nulla a nessuno, tanto meno a un guerriero.
Questa mi pare peraltro la massima più bella e più utile che abbia mai letto: «Nessuno fa nulla a nessuno». È la confutazione della paura, e insieme ad essa di tante altre cose dannose.