Nonostante fosse argentino Guido Falcone viveva a Parigi, modestamente, insegnando in un’accademia due lingue: una antica e una moderna. In realtà si era allontanato da Buenos Aires per sfuggire la prospettiva di una esistenza monotona, dal momento che la presenza costante dei suoi amici e familiari non gli permetteva di essere indipendente come avrebbe voluto, ma questa prospettiva lo aveva seguìto, sia pure con un certo ritardo, di là dell’oceano, e di tanto in tanto lo costringeva a prendere decisioni disagevoli, delle quali poi non sempre si pentiva.

Per esempio, trascorrere la fine settimana altrove. Male che andasse, questi spostamenti servivano al suo ritorno a fargli apprezzare più chiaramente i vantaggi di restarsene a casa, soprattutto d’inverno.

Così partì un Sabato per Aix-en-Provence. Durante il viaggio ebbe il piacere di sconcertare la ragazza seduta accanto a lui, dapprima coprendole le gambe col suo elegante cappotto vecchio di cammello, con la scusa del freddo, quindi toccandole leggermente la coscia sotto il cappotto. La giovane donna, in eccellente stato ma egoista, scostò l’indumento senza dire nulla e poco dopo scese dal treno, in una di quelle stazioni che nessuno tranne i direttamente interessati conosce o ricorda. Uscendo dallo scompartimento guardò con curiosità il pretendente frustrato e si permise un gesto quasi impercettibile di disprezzo. "Perché mi disprezza?" si domandò Falcone "perché non mi sono gettato su di lei con un grido selvaggio di guerra per possederla disperatamente sul sedile, aprendo le sue gambe come un soldato invasore con guanti di pelle rozza e allo stesso tempo strappandole con i denti la punta dei seni che almeno in quel momento di libertinaggio avrebbero assunto la forma e la posizione che meglio possono eccitarmi? Gli altri passeggeri non me l’avrebbero permesso".

Tuttavia, per uno straniero di ambizioni modeste che ancora non possiede perfettamente i costumi del paese, l’avventura si poteva considerare soddisfacente; ma il resto del viaggio, tra uomini che fumavano e leggevano settimanali e di tanto in tanto si alzavano per guardare dai finestrini del corridoio quel che credevano un paesaggio e in realtà altro non era per ciascuno di loro che un’immagine diversa e quasi terrificante di una condanna permanente per quanto apparisse provvisoria, si fece troppo lungo e a poco a poco spense il bagliore festivo del contatto sotto il cappotto.

Il treno giunse a Aix al tramonto. Senza fretta e senza fatica, Falcone cercò una pensione modesta per la notte e la trovò sul viale ovale che circonda la città vecchia. Accettò la camera che gli offrirono, lasciò la valigetta sul marmo del comò e uscì a mangiare. Per strada ricordò un suo sogno recente: un bambino gli mostrava un paesaggio di case piatte sulla sponda opposta di un fiume giallo come il Plata, e gli diceva: "Non sa come era bello tutto questo nel 1810". La scena irreale cominciava ormai a aggiungersi alla collezione di scene reali che ancora conservava del suo paese lontano, scene che gli piaceva evocare come chi rilegge un libro di poesie.

Dopo mangiato percorse le vie della città e si trattenne un momento, senza spettatori, davanti alla casa di Cézanne. In un cinema del Cours Mirabeau davano un vecchio film argentino e un documentario sugli animali selvaggi dell’Africa. Entrò: alla luce giallastra di un deserto con giraffe che si spostavano senza destinazione precisa sopra lo schermo, avrebbe voluto trovare tra le lunghe file di poltrone vuote una di quelle donne sole che aspettano il viaggiatore senza famiglia tendendo una mano fredda e vanamente curata verso i suoi pantaloni tiepidi nella penombra, più per desiderio di compagnia che per altro. Ma non la trovò. Le bestie dell’Africa erano più o meno sempre le stesse. A un tratto, dopo un intervallo durante il quale la direzione del cinema non aveva osato accendere tutte le luci perché si vergognava di far vedere la sala così vuota, comparvero sullo schermo rettangolare le stolide facce argentine che da bambino gli erano state familiari, parlando in francese in un Quartiere Nord popolato da pizzicagnoli a riposo e di prostitute in attività. Frammenti della Diagonale, un ingresso della metropolitana, una strada di "paradisi"; perfino il vero riusciva falso, come in un quadro accademico. Quando uscì, il maestrale persisteva, ammucchiando in isole irregolari il detrito giallo dei platani.

Trovò la pensione chiusa e al buio; peraltro tutte le case del quartiere erano già chiuse e buie, in silenzio. Il silenzio dei campi non è mai completo quanto quello di una città, dal cui comprensorio l’uomo ha provvisoriamente allontanato la vita che non dorme di notte. Dietro le facciate uniformi si indovinava tuttavia nella tenebra interna, come il vago tremolio di un telone raffigurante un edificio, il respiro delle larve calde e palpitanti, grasse e morbide, di tanti esseri distribuiti parallelamente oppure perpendicolarmente nei loro letti a altezze diverse, su un secondo piano, su un terzo piano. Falcone suonò il campanello a lungo; alla fine capì che la padrona l’aveva staccato prima di andare a letto. Batté sull’uscio, chiamò, ma con voce cauta, perché un poco lo spaventava l’idea di disturbare quella folla invisibile tra coperte; neppure avrebbe gridato di notte in un cimitero, neanche sapendo che uno dei sepolti doveva accorrere al suo richiamo. Era più di mezzanotte quando rinunciò, senza rancore perché a dire il vero non aveva mai ignorato quanto fosse difficile penetrare nella dimora degli uomini.

Aix svernava risolutamente sotto le costellazioni incomprensibili dell’emisfero nord; soltanto le statue, figure di morte e di oblio, osavano offrire al passante i loro simboli quotidiani: un rotolo di carte, uno scettro, un vassoio con della frutta immangiabile. Il solo albergo che Falcone trovò aperto, sul Cours Mirabeau, era pieno; qui gli suggerirono un altro albergo, vicino alla stazione, il quale era ancora più pieno del primo, difatti secondo il portiere conteneva un’intera squadra di calcio. Rimaneva il "Roi René", ma era troppo caro per Falcone; più precisamente, i suoi prezzi non corrispondevano a nessuna realtà nota, come capita spesso con gli alberghi frequentati da persone famose: dopo aver pagato per una stanza il prezzo di una bicicletta o di un vestito estivo sembra illogico rinunciare a questi oggetti per andare a dormire. Guido Falcone capì che avrebbe dovuto passare la notte all’aperto.

Il centro di Aix, forse perché la città non è stata abbastanza bombardata, è privo di terreni vuoti e di giardini. Falcone si mise a sedere su una panchina in una specie di piazzale dirimpetto al Casinò che era il solo fabbricato con la luce accesa, se si fa eccezione di un lume rosso di forma cubica appeso sulla porta del commissariato attiguo. Quel luogo era troppo aperto e il maestrale ci scorreva dentro come un fiume scuro nel quale gli alberi navigassero contro corrente. Dopo un quarto d’ora il forestiero se ne andò tra lunghe inferriate per la strada di Marsiglia; giunto però al cimitero tornò indietro, ricordando che quando fa freddo non conviene allontanarsi troppo dal centro di una città perché è sempre più caldo dei dintorni. Passò per una stradina di terra; tra le case basse, scorse il vuoto di un terreno abbandonato.

Il terreno era chiuso da un muro di mattoni nudi, con un buco poligonale quasi circolare come quelli che sono soliti aprirsi nei muri di cinta degli appezzamenti vuoti, progressivi allargamenti di un foro iniziato dai bambini che mettono il dito dappertutto e completato dagli adulti che vagheggiano quei luoghi dove l’uomo trova gratis la generosità e i vantaggi che la natura vergine spande in terre lontane, scarsamente abitate, inaccessibili per il cittadino medio: lì ci è concesso di buttare senza discriminazione gli oggetti rotti o ripudiati di ferro e coccio, lì ci si offre il brivido soddisfacente di nasconderci a scopo impudico, soli o accompagnati. Guido Falcone si arrampicò sui mattoni ed entrò.

La vegetazione interna era relativamente abbondante; oltre a una specie di edera addossata al muro, c’erano alberelli, cespugli e un albero perenne, ma la terra era in gran parte coperta di calcinacci, resti di vecchi fabbricati. Falcone si preparò con foglie e ramoscelli un cuscino sotto l’albero; scostò i sassi più fastidiosi, che gli pungevano la schiena attraverso i vestiti; dai cespugli strappò un certo numero di rami per coprirsi quella parte delle gambe che il cappotto lasciava scoperta. Infine accese una sigaretta e si coricò. Dapprima provò la calma, poi la scomodità.

Non poteva dormire di faccia al cielo, e su un piano inferiore della sua coscienza si ripeteva ciclicamente una frase musicale volgare e stancante. Passavano ignorandolo gatti intenti alle loro intermittenti faccende notturne, i loro interessi incomprensibili per l’uomo; i topi frusciavano nell’edera, il silenzio sembrava popolato di ragni. Falcone immaginò che il suo nemico, un despota piccolo vestito come Napoleone nella campagna di Russia con un cappotto lungo dai risvolti larghi, lo ricercava per tutte le strade non già di Aix ma di Poitiers, seguito da una pattuglia ubbidiente, lagnandosi del freddo.

Si sentiva galleggiare sotto il firmamento, sentiva la rotazione silenziosa della terra; attraversava veloce il vasto cono d’ombra, incontenibilmente, girando nella notte stellare verso la penombra marginale. Il vento si era calmato e faceva sempre più freddo; le foglie lustre che riflettevano la luce di un lampione lontano sembravano adesso di vetro, l’aria di aghi.

Come il turista che scorgendo dalle feritoie della scala a elica di una torre gli archi rampanti intorno comincia a farsi un’idea ascendente e teatrale della cattedrale o castello che visita, così constatava Falcone sempre più nitidamente la singolarità della notte. Nel suo innocente, modesto terreno vuoto di Aix, dove i secoli passati e quelli futuri sembravano sovrapporsi aboliti dalla futilità dei loro eventi importanti sotto il tetto in quel momento gelato dell’Europa e nel silenzio senza abbaiare di cani, un americano si rannicchiava tra tessuti di lana di pecora come i primi abitanti della Francia, che forse erano negri, e nonostante una preparazione letteraria di molti anni o magari proprio per quella, riusciva a percepire l’intensità della purezza notturna che avrebbe potuto esaltare qualunque istante della veglia dell’uomo magdaleniano, mentre esiliato dalla spelonca familiare perché ha infranto un rito magico erra per la valle del Rodano, non ancora interamente liberata dai ghiacci, dormendo sotto gli alberi come Falcone, aspettando l’attacco di un’altra famiglia o il salto letale della tigre preistorica.

Allo stesso tempo, isolato dal freddo quasi poliedrico in un ambito così inviolabile di aria congelata che per quanto non bastasse a fargli credere di essere l’unico uomo al mondo, non gli vietava tuttavia la possibilità di considerarsi l’ultimo sopravvissuto di una campagna a cui tutti gli altri avessero rinunciato, sentiva come un simbolo in più della notte l’assenza completa di qualsiasi desiderio di esprimere la sua solitudine vertiginosa, di incarnarla in uno schema comunicativo qualunque che non fosse un titolo senza altro destinatario che il gusto dell’evocazione, per esempio "La notte che ho dormito in un terreno vuoto di Aix", o più semplicemente "La notte di Aix". E quella sua sicurezza che nessuno in avvenire avrebbe capito la sua esperienza, non se ne sarebbe nemmeno interessato, costituiva la migliore conferma dell’essenza stessa dell’esperienza, che era la solitudine.

Come quei problemi dalla soluzione leggermente tediosa che ci si pone per aiutare la coscienza a sciogliersi nelle acque che scorrono per le grotte sotterranee del sonno, Falcone si domandava fin dove si sarebbe dovuta prolungare la solitudine per arrivare a abolire l’arte. Non soltanto sotto quel cielo adesso nuvolo bastava una notte per ripercorrere indietro una civiltà e tornare all’origine, al riparo dell’albero e al cuscino vegetale. Ma questi pensieri di carattere metafisico impreciso, alla maniera tedesca, che a volte gli si presentavano quando chiudeva gli occhi, erano conseguenza del sonno o ne erano la causa? Nell’addormentarsi si scioglievano le contraddizioni; uno apriva una porta e precipitava nel tempo infinito, così velocemente che fin dal primo istante perdeva di vista l’altezza dalla quale era caduto. Solo un santo, pensava Falcone quasi addormentato, è interamente spirituale; solo un santo è interamente materiale…

A poco a poco un bagliore nebbioso che annunciava la comparsa della luna rese discernibile una specie di avvallamento dall’altra parte del terreno, in fondo al quale passavano dei binari morti, invisibili però dall’angolo pietroso dove Falcone si addormentava e si svegliava a intervalli come quei soldati che dormono in treno eppure si svegliano a ogni fermata o perlomeno aprono un occhio velato perché istintivamente non credono all’immutabilità delle distanze né alla benevolenza delle forze occulte che reggono il percorso e la velocità del treno.

Sognava che bombardavano Buenos Aires. Era una rivoluzione contro il dittatore, che nel sogno si chiamava Coniglio, e la popolazione dava gran segni di entusiasmo. Falcone passeggiava da solo tra folle atterrite benché felici; due o tre bombe cadevano nei pressi, ma lui presto imparava a eluderne l’effetto. Bisognava guardare verso l’alto per vederle arrivare; quando una bomba si avvicinava, doveva gettarsi a terra a quattro zampe e aggrapparsi ai crepacci del pavimento screpolato per meglio resistere la scossa dell’impatto. Attimi dopo una specie di vento lo trascinava via a gran velocità, allontanandolo radialmente dal centro dell’esplosione; il solo pericolo di questo spostamento vertiginoso era la possibilità di scontrarsi con qualche oggetto. Dappertutto si alzavano bagliori rossi come fiamme.

Alle tre e mezza cominciò a nevicare; della luna persisteva soltanto il candore diffuso nel cielo. La neve non si scioglieva quando toccava la terra; sotto l’albero arrivava appena qualche fiocco isolato, finché un ramo non si piegò sotto il peso del suo nuovo ornamento e lo rovesciò su Falcone. Questi si alzò, guardò con ammirazione quella sostanza che gli sembrava la più pura della terra, generosamente sparsa sugli elementi fino a quel momento più o meno confusi del suo piccolo paesaggio e adesso chiaramente delimitati nei loro morbidi contorni bianchi, e uscì dal terreno vuoto, come era entrato, con il sangue esaltato dalla felicità della neve.

Si mise di nuovo a camminare per la città immobile con lo stesso criterio con cui passeggia un cane a Pompei, cioè senza alcun legame con l’architettura del luogo e il suo significato storico, se non sotto il suo aspetto di ostacoli di pietra che lo costringono, non meno del più consapevole archeologo, etnologo o poeta, a ubbidire al disegno immemorabile delle vie fino a quel giorno scavate. E anche nel suo caso, a parte l’apprezzamento visivo ridotto dalla neve e dal sonno, il che tutto sommato equivaleva alla fame indefinita che prova il cane mentre passeggia, lo guidava l’intenzione quasi istintiva di trovare un rifugio meno esposto al freddo onnipresente. Arrivò infine a un piazzale con pochi alberi, attiguo a un monastero, dove un padiglione aperto o pergola, probabilmente destinata in altri tempi a fornire l’ambito circolare che la musique militaire richiede nei suoi momenti meno ambulatori, gli offriva i ruderi del suo tetto conico. Qualche minuto dopo, a venti metri neanche dalla pergola, dietro un muro abbastanza alto da non lasciare entrare le tentazioni, cominciarono a cantare i monaci o chi altro fosse che in quel monastero viveva prigioniero per essere più libero, come in un carcere alla rovescia; cantavano melodie che una volta saranno state allegre e che adesso grazie all’astuto sistema di prolungare esageratamente i tempi sembravano malinconiche e persino strazianti. Cantavano alle quattro del mattino come insonni rancorosi, ma la neve lasciava passare appena la loro voce.

Falcone si era seduto per terra, con le gambe stese e le spalle appoggiate a una colonna di ferro, tanto scomodo che non gli riusciva né di pensare né di dormire. Intorno continuava a nevicare senza vento nel buio; nevicava come nel tenero racconto di Joyce, sulla polvere gialla dei platani, sulla ghiaia del piazzale e sull’aula di pietra dove i dervisci evasionisti salmodiavano le loro semplici frasi pensando alla colazione ristoratrice, sui nidi abbandonati e sulle latrine pubbliche, sulla strada di Avignone e sulla strada di Marsiglia.

Come quando uno ascolta una splendida sinfonia interminabile di qualche musicista tedesco della fine ottocento, con le sue ripetizioni e i suoi attimi di vera distrazione e perfino di vuoto mentale, redenti da squarci sublimi di un’estasi di altre sfere, Falcone cominciava, intirizzito e incosciente quasi presso la sua colonna di ferro, a annoiarsi della durata e della scomodità della notte, per quanto la stanchezza e il freddo gli impedissero, nei suoi momenti di maggior chiarezza percettiva, di ubbidire all’impulso di alzarsi e continuare a camminare per la pallida città crepuscolare, visitandola con quella specie di affetto che era in lui conseguenza naturale di un’intimità non condivisa con altri, l’affetto che può sentire per il suo pollaio una gallina solitaria. Tuttavia, quando alla fine cominciò a farsi giorno, con quella lentezza nonostante tutto promettente di un mattino di inverno, Falcone emerse dalla pergola e riprese a girare per le strade che dall’ocra della luce elettrica passavano adesso al grigio giallastro dell’alba tra macchie bianche, perdendo la loro austerità notturna di telone poetico da tragedia per tornare alla loro condizione di file di case sottomesse all’uomo. Tanto sottomesse infatti le rendeva l’aurora lattiginosa, che Falcone a un tratto si imbatté nel primo caffè aperto. Ci entrò, come chi ritorna da un’alta montagna disabitata e lontana o da un deserto di sabbia; come se avesse trovato il primo caffè aperto dopo il diluvio o un’esplosione atomica; come se quelle cinque persone, la padrona scarmigliata e il barista che non si era spogliato ancora della sua maschera tersa di contadino dormente e i tre clienti mattinieri che ancora si salutavano con gocce di neve fusa sulle scarpe, fossero stati attori rapidamente radunati mediante telegrammi per offrirgli, in nome delle gentili autorità comunali che tuttavia desideravano mantenere l’incognito, una degna accoglienza in occasione del suo ritorno trionfale alla civiltà.

Rinforzato dal caffè e dal brusio banale e noto della conversazione umana, il giovane nottambulo decise di considerare chiusa la sua prova di iniziazione non interamente involontaria, la sua esercitazione di distacco dal ritmo sociale, prima giornata di un processo di inversione che con l’aiuto della sorte avrebbe potuto fare di lui un vero viaggiatore sulla terra; e quindi di tornare alla pensione, come uno che si avvia risolutamente verso il suo Santo Graal sorretto dalla sicurezza della propria castità. Su una panchina verde del viale aspettò seduto, davanti alla porta. Piovigginava, sciogliendo adagio la neve sui rami chiari dei platani.

Alle sette e mezza si aprì la finestra dell’ultimo piano; Falcone si avvicinò, chiamò; con le braccia aperte quasi in croce si espose agli ingiusti rimproveri e alla meraviglia tinta di odio di entrambi i proprietari affacciati; infine ottenne che la donna scendesse e gli aprisse pure il portone. Nella stanza inviolata senza quadri alle pareti, l’aria era tiepida; sul marmo del comò lo aspettava la sua valigia, inconsapevole della lenta eleganza cromatica con cui sicuramente era andata mutando colore durante la notte, man mano che entravano attraverso le fenditure delle persiane i riflessi successivi della luce elettrica, della luna, della neve e dell’alba grigia.

E come un’ultima metamorfosi del colore della finta pelle, mentre Falcone si toglieva i calzini umidi e si asciugava i piedi con l’asciugamano, cadde a un tratto sulla valigia ancora immobile la prima fascia di sole nebbioso, che finalmente attraversava la pioggia leggerissima passando senza deformarsi tra il tetto di una fabbrica e una insegna che diceva "Du Bo, Du Bon, du Bonnet". Il viaggiatore chiuse meglio le persiane, si mise a letto e si addormentò subito, con la notte racchiusa nella memoria.

 

J. Rodolfo Wilcock

Parsifal, Adelphi 1974

Parte nuotando di fronte parte galleggiando di fianco tra palme umide e felci che il viavai delle onde trascina sulla spiaggia come i capelli di una donna che si sciacqua la testa in un torrente, Ulf Martin giunge a terra.

Si siede al sole in un luogo più o meno asciutto e rimane a guardare, finché non la vede scomparire divisa in tre strati di miraggio, la barca rotta, la sua inutile Mutumaru.

La marea sale; intanto il sole gli asciuga la camicia, i pantaloni e i tratti più esposti della cinta di cuoio. In quell’insolito paesaggio di vegetali che crescono tanto sulla riva che in mare, si riposa qualche minuto prima di internarsi nell’isola con la vaga intenzione di trovare un albergo o un bar dove si possa telefonare o domandare come si ritorna a Sydney. Tra la schiuma indifferente delle onde che si infrangono sulla spiaggia si alzano le palme ancora ritte, circondate da palme coricate che conservano ancora da una parte la loro spazzola rotonda di radici e dall’altra il loro fastello di rami; fra le noci di cocco sparse galleggia una specie di fagiano putrefatto. Che isola strana!, pensa Ulf.

La tempesta di stanotte sarà stata davvero violenta, pensa, o forse si tratta di una varietà di palme che possono vivere nell’acqua salata, come le alghe. Ricorda che il padre di Violet, la volta che provò a vendergli una racchetta da donna con il manico di piombo asserendo che si trattava di un’invenzione americana, gli parlò di un luogo a nord dove la vegetazione era così abbondante che gli alberi si sradicavano a vicenda per mancanza di spazio e in certi periodi aggredivano i coloni sollevando i letti quando dormivano, rovesciando i tavoli quando mangiavano e a volte costringendoli a fuggire sui rami in alto per non morire incastrati tra i tronchi. Violet, bisbigliano le sue labbra.

Come altre volte, per distrarsi, si esercita a ricordare i nomi di tutti i nipotini e zii di Violet. Così lontano da Sydney, Ulf Martin si sente sperduto; non sapendo che cosa fare, incide con un temperino l’iniziale della fidanzata sul tronco di una palma e poi si addentra nella macchia. Osserva che fin dove arriva la marea il terreno è un conglomerato calcareo; più su predomina una polvere sottile, senza traccia di silice né argilla: forse è polvere di corallo, pensa Ulf, con una percentuale infinitesima di scheletro macinato di persona annegata tragicamente, delle cui ossa son fatti i coralli, come dice Shakespeare.

Senza faticare troppo il giovane sale fino al punto più alto della sua nuova dimora, che d’altronde manca quasi interamente di eminenze degne di nota; da lì si domina l’isola in tutta la sua estensione: è un atollo piccolo, come una corona di terra che si interrompe dove il mare comunica con la laguna centrale. Le rive interne sono come quelle esterne, ossia che anche da quella parte le palme crescono nell’acqua. La fascia circolare di terreno (del tutto privo di fabbricati) è stretta, di circa cinque chilometri di raggio, altezza trascurabile e dislivelli minimi.

A una settantina di metri di distanza un rettangolo metallico arancione riflette verso ponente le ultime luci del ponente; Ulf si sposta con aria avvizzita verso il punto d’origine di questi riflessi e accerta che si tratta di una capanna o casetta col tetto di fibra e pareti di lamiera, perforata da una porta e due finestre. Quando apre la porta, una specie di cuscinetto tiepido con zampe dure come il ferro lo colpisce in pieno petto e subito scappa strillando per l’aria.

Ulf si scuote di dosso le piume sparse e osserva l’interno della casupola vuota. Ai quattro angoli, fogli e frammenti sgualciti di giornale ingiallito in inglese coprono resti di fogli variamente scritti, pure in inglese. Di questi Ulf raccoglie i pezzi e ricompone la ricevuta dell’acquisto di un salvagente, un’altra dell’acquisto di un cocker-spaniel, un’altra ancora dell’acquisto di una lima. I fogli di giornale appartengono tutti allo stesso numero del quotidiano di Auckland "The Chronicle", dedito con malinconico entusiasmo a commentare avvenimenti sportivi di altri tempi, nei quali ormai nessuno, tranne i loro più diretti attori, potrebbe trovare un qualsiasi interesse.

Mettendo insieme i rimanenti pezzetti di carta, Ulf riesce a ricomporre alla luce del tramonto una lettera incompleta macchiata d’inchiostro; la sua destinataria è una certa Emy Parven, di Compton Oaks, Sussex, in Inghilterra. Dalla data si desume che la lettera è stata scritta, e interrotta, sei mesi prima.

Il testo, al quale manca tutto il lato destro, dice così:

Cara Emy,

ti scrivo dall’isola. Non . . . . .

di Stephen con i suo . . . . .

sul mio atteggiamento né sui miei . . . . .

la fortuna che sempre ci . . . . .

a volte molto chiaramente . . . . .

Le macchie di inchiostro, come di calamaio rovesciato, che coprono il resto del foglio, spiegano la distruzione e susseguente abbandono della missiva.

In un altro angolo della casupola, Ulf trova le due metà di una fotografia strappata. Dalla parte delle immagini, la foto mostra un giovane che regge per il collare un cane lanoso con due o tre teste, probabilmente perché si è mosso quando non doveva; dall’altra parte si legge: "Bobby e Cornelius nel 1944".

A quanto pare, l’isola è completamente o quasi completamente disabitata; nel buio crescente, Ulf Martin prova a esplorarla e casca in una pozzanghera di acqua stagnante. Alla fine scopre un albero pittoresco di frutta apparentemente commestibile. Sazio, scoraggiato, torna alla casupola e si siede per terra, con le spalle appoggiate alla lamiera ancora calda dal sole. Il suo solo pensiero è adesso questo: a chi dare la colpa di quel che gli accade?

 

II

 

Una sera d’inverno Ulf Martin lesse nel quaderno intitolato "Album di Poesie Inedite di Violet Barie" il sonetto ultimo aggiunto alla serie e rimase colpito da un verso che domandava (in inglese): "Sarà ad attrarmi la tua razza rara?".

Fino a quel giorno aveva dato per scontato che tutte le poesie del quaderno fossero dedicate a lui, ma questa espressione inattesa, "la tua razza rara", sembrava riferirsi troppo direttamente a Pauli Meyer. Glielo disse all’autrice, con voce oscurata dalla gelosia; Violet gli ribatté con voce chiara e indifferente che la sola idea di introdurre il vocativo "Ulf" in un sonetto, e peggio ancora "Ulf, Ulf!" nei momenti di massima commozione, aveva costituito per lei, dal primo giorno del loro fidanzamento, un vero problema di estetica poetica; che di conseguenza le sue poesie erano dedicate a tutti gli uomini in genere, senza distinzione di razza; e che d’altronde, in ultima analisi, era il caso di osservare che la stragrande maggioranza della popolazione maschile della terra appartiene a questa o quella razza rara.

Due mesi dopo, nel garage di una casa di abitazione nei dintorni di Sydney, in circostanze in cui apriva nelle tenebre la portiera di un’automobile di sua proprietà per prelevarne dall’interno una zucca di grosse dimensioni spedita dalla signora Martin alla signora Barie, della quale sino a quell’istante si era completamente dimenticato, ebbe occasione di constatare che Violet e Meyer non l’avevano sentito entrare nel garage e che la zucca, presumibilmente allo scopo di permettere ai due giovani suddetti più libertà di movimenti, era stata prelevata dal sedile posteriore dell’automobile, da mani ignote ma intuibili, e quindi poggiata sul sedile anteriore.

Forse per un effetto di trasposizione di sentimenti, quel che maggiormente offese Ulf fu questa circostanza, che gli avessero spostato la zucca; gli sembrava una libertà imperdonabilmente oscena, quella di coinvolgere i frutti naturali dell’orto di sua madre, oggetti tutto sommato suoi, in un tradimento tanto immondo che forse in altro modo non sarebbe neppure riuscito a sfiorarlo. Non disse nulla, ma da quel momento si adoperò a imbastire progetti più o meno sinistri di vendetta.

Alla fine rinunciò a tutti quanti i suoi piani, in blocco, e con sorriso ipocrita ma non finta soddisfazione accettò da Pauli Meyer l’invito a fare una gita sulla Mutumaru, la barca del suddetto agente d’assicurazioni, che adesso era soltanto a vela ma che in altri tempi era stata a motore. Una mattina di primavera Ulf Martin salì sulla Mutumaru dietro al suo proprietario, fumando dal nervosismo; purtroppo, non appena usciti dal porto, cominciò a fargli male un orecchio.

Il fatto che il suo interlocutore fosse relativamente muto, la tempesta che si preparava e per giunta il dolore all’orecchio affievolirono così rapidamente la sua capacità di concentrazione, che circa due ore dopo, quando il padrone dell’imbarcazione, in quel momento occupato alle vele, gli chiese aiuto, a stento riuscì ad alzarsi traballando; fece per raggiungere il centro del natante e inciampò in un attrezzo caduto sulla coperta. Mentre cercava di resistere la variazione di pendenza che periodicamente lo spingeva verso l’albero maestro, dove il suo presunto rivale, arrampicato a mezzo metro di altezza, cercava di sciogliere le corde, Ulf raccolse lo strumento, che era una chiave inglese.

Tutto a un tratto, un’ondata più forte delle precedenti coincise con uno di quei frequenti attimi di totale interruzione dell’attività mentale che caratterizzavano questo periodo specialissimo, e per così dire conclusivo, della storia di Ulf Martin; scivolando imperiosamente verso il suo nemico, alzò lo strumento che brandiva nella mano destra e con quell’intima curiosità che ci suscitano i movimenti eseguiti in sogno, lo scaricò con forza sulla nuca che in quell’istante Meyer generosamente gli offriva.

Il colpito cadde sull’orlo della barca, con un braccio nell’acqua. Martin lo osservò un momento. Vide che non si muoveva; pensò che al risveglio lo avrebbe accusato, forse picchiato, forse denunciato. La sola cosa che gli venne in mente di fare, per eludere queste spiacevoli prospettive, fu di buttarlo in acqua; comunque, pensò, se fosse caduto dall’altra parte sarebbe annegato. Come tutti gli innocenti di spirito, Ulf Martin credeva che è sempre possibile modificare il passato; che nella rappresentazione spaziale del tempo due lati di un triangolo possono essere sostituiti dal terzo.

Prima di gettarlo via, rifletté che sarebbe stato meglio appendergli o legargli addosso qualche oggetto pesante per facilitare la discesa; quasi immediatamente capì che non ce n’era bisogno, visto che in pochi minuti se lo sarebbero mangiato i pesci.

Simile a un fantasma verdognolo, il sacrificato affondò lentamente nel suo nuovo ambiente idrosalino, sotto gli occhi arrossati dell’omicida, dimostrando tra l’altro con quel semplice atto di immersione la trasparenza dell’acqua in alto mare. Come un oggetto personale seguiva il suo possessore in un funerale etrusco, egizio o miceniano, così lo seguì lo strumento che era servito a immolarlo, con un’accelerazione centripeta diretta al centro della terra costantemente minore di quella registrata per i corpi nel vuoto, ossia novecentottantuno centimetri per secondo quadrato.

Poco dopo giunse la tempesta; Martin non sapeva manovrare, nemmeno a mare calmo, così che i suoi primi tentativi provocarono la caduta della parte superiore della velatura. Con le vele in acqua come le quattro ali di una farfalla bagnata, ormai la Mutumaru non poteva comportarsi se non come si comporta una farfalla bagnata.

Per un giorno e mezzo il vento nero lo trascinò verso est; Martin si nutriva nel frattempo dei panini preparati dalla madre di Meyer e del pollo arrosto preparato da Violet. Grazie al freddo e alla disperazione, riuscì a poco a poco a dimenticare il dolore all’orecchio. Improvvisamente, come quando qualcuno attende a lungo l’autobus e alla fine lo vede arrivare, scorse l’isola all’orizzonte; il vento, la corrente e il caso lo avvicinavano.

Afferrò allora con disperazione il remo di emergenza e si mise a remare, ma i suoi sforzi sembravano soltanto allontanarlo; tutt’al più la barca ruotava su se stessa. Deciso a giocarsi il tutto per tutto, si gettò in acqua, vestito come era salito a Sydney; quando già stava per perdere i sensi, il mare lo consegnò, come a volte accade a quelli che gli si confidano, sulla riva.

 

III

 

Seduto per terra con le spalle appoggiate alla parete metallica della casupola, ricorda le sopracciglia spesse e implacabili della sua fidanzata e si sente sempre più scoraggiato. Ciò nondimeno, se riuscisse in qualche modo a tornare, forse finirebbero questi incubi che lo perseguitano, nel corso dei quali Violet lo identifica verbalmente con una zucca e l’isola sprofonda con irresistibile, solitaria indifferenza nell’oceano. Finirebbero anche gli schiamazzi e gli urli di quegli uccelli che svolazzano fra le noci di cocco spruzzate dalla schiuma delle onde, e potrebbe infine fumare, mangiare della carne, accendere il fuoco, parlare con qualcuno, essere il vano, il tranquillo Ulf moderatamente sportivo che tutti e anche lui hanno da sempre conosciuto.

Le giornate successive sono una lunga condanna di diarree e vomiti, sicuramente provocati dalla frutta. Ogni giorno diventano più numerosi gli indizi tendenti a confermare la verosimiglianza della sua prima supposizione, sorta all’inizio come un sogno ma sempre più fermamente decisa a diventare realtà: l’isola affonda, oppure è l’oceano che sale.

Alla fine, nonostante la buona volontà con cui si adopera ad attribuire ai fatti una varietà di altre spiegazioni, scopre la verifica che persino alla sua frivolezza appare definitiva; quando ritorna in cerca della palma sulla quale ha inciso due settimane prima la V che in altri tempi credette simbolo di vittoria, la trova nell’acqua. Consunto e stremato, in piedi fra le felci che salgono e scendono insieme alle onde quasi che fossero mosse da un motore, braccato dai rottami vegetali che vanno e vengono ritmicamente come spazzature con nostalgia, fa un ultimo, fallito sforzo per non credere a ciò che vede, e ha l’espressione di un biondino della borsa nera improvvisamente colpito dall’ordine d’arresto.

 

IV

 

Una settimana dopo, sempre seduto allo stesso posto, Ulf Martin è più magro, la sua faccia mostra le prime pieghe della sua storia adulta, per nulla paragonabili alle tenere rughe che la contraevano al momento della nascita e che tanto stupirono suo padre, se non altro perché quelle di adesso si confondono nella boscaglia di una folta barba rossa; ha conosciuto l’illusione e la delusione, la pioggia, il caldo, il morso di un tafano peculiare della zona, l’infiammazione gastrointestinale. Di tanto in tanto pensa: invece di uccidere l’amante della fidanzata è meglio, nella stragrande maggioranza dei casi, cambiare fidanzata. Conserva, sola reliquia quasi del gremito passato dell’umanità, le due metà congiunte della fotografia rotta, e a volte, per distrarsi, si domanda quale sarà Bobby e quale Cornelius; come l’ufficio informazioni di un ministero, la immaginazione gli risponde: è il cane, oppure è il ragazzo, in ogni caso semplici congetture prive di fondamento.

La sua parte animale non concepisce la morte, per quanto inconsapevolmente tenda sempre a evitarla; invece la sua parte prettamente umana e pensante riconosce l’esistenza di un problema e l’esigenza di risolverlo. Ma le persone come Ulf Martin, quando si trovano di fronte a un problema, non solo si tranquillizzano ma si accontentano completamente della prima idea piacevole che riesca in qualche modo a promettere loro non la sicurezza ma la possibilità di una soluzione, e così accontentate si sentono libere di perdere il tempo in occupazioni futili scarsamente attinenti agli scopi che le suddette persone dichiarano di perseguire in genere e tanto meno al problema in particolare.

Intanto la striscia di terra che ancora si può chiamare isola continua a restringersi; il mare penetra nella macchia e inonda le zone basse, una dopo l’altra, mentre gli uccelli, astuti per istinto, emigrano verso località più stabili. L’isola si spacca in due, il giorno dopo in cinque pezzi.

Una mattina Ulf apre la porta della casupola e la schiuma gli schizza sui pantaloni: durante la notte è franata la fascia di terra che ancora lo separava dal mare. Se non la sposta più su, in due o tre giorni frana pure la casupola. Oh come preferirei essere in Svizzera o sulle Ande! - pensa il giovane naufrago - meglio ancora, essere in casa mia a Sydney; gli uccelli se ne vanno, anch’io dovrei andarmene.

A un tratto decide di uccidersi, come un gesto di ribellione. Passati in rivista i diversi tipi di suicidio indolore che in quel momento riesce a ricordare, conclude che, mancando assolutamente la possibilità di metterli in pratica, gli converrà rinunciare al progetto; la cosa più ragionevole, date le circostanze, sarebbe di costruire una zattera.

Tronchi non gliene mancano, ma non sa come legarli insieme; ricordando il metodo più semplice per risolvere problemi che gli hanno insegnato da bambino, si lascia cadere in ginocchio sulla sabbia bianca e prega. Poi prova a fabbricare delle corde con i vegetali che gli offre la flora locale; ma le corde che intreccia di giorno si disintrecciano da sole di notte. Siccome non può immaginare altra possibilità di evasione, insiste nell’intento, e dopo qualche giorno, quando già il mare si è portato via la casupola assieme alla foto di Bobby e Cornelius, riesce a intrecciare corde più o meno durevoli con piante rampicanti.

Si sente mancare il tempo, parla da solo, ripetendo parole senza senso; ha capito che gli restano pochi giorni. Una tempesta più forte delle precedenti, e il mare spazzerà via l’isola. Gli sembra di essere sul dorso di una balena; a tratti persino la sente muovere. Una di queste notti, pensa, senza preavviso, si scompare dalla carta geografica. L’annichilazione cartografica gli ispira ancora più spavento della cancellazione topografica.

Con impazienza, con imperizia, ma nel fondo dell’essere con giubilosa speranza, si adopera adesso alla costruzione di zattere. Le prime due riescono tanto deformi che vengono abbandonate. La terza pure, ma ormai si è rassegnato a viaggiare su un natante imperfetto. Per mancanza di sega, i tronchi che costituiscono la zattera conservano sia le radici che i rami, il che ostacola oltremodo l’operazione, e dà al congegno un aspetto insolito di prodigio naturale.

Con le sue ultime forze trascina la zattera fino a quel che nonostante le sue cinque comunicazioni con il mare esterno continua a essere la laguna interna dell’atollo; invece di reggersi orizzontale sulle acque, l’imbarcazione galleggia storta, con un angolo sotto il pelo della laguna. È la prima nave nel suo genere. Tuttavia Ulf riesce a raddrizzarla caricando noci di cocco e frutta sull’angolo opposto; dopo di che dedica un’intera notte al compito di intrecciare una vela con rami di palma, oggetto voluminoso che si disfa continuamente e al quale si vede costretto a rinunciare un’ora prima dell’alba, perché lo vince il sonno.

Finora Martin ha dimostrato di essere una persona che fallisce in tutto, ma la vita nelle grandi città è organizzata in modo che perfino all’essere più inutile basta essere simpatico o avere una famiglia per sussistere per anni senza troppi inconvenienti perché le conseguenze della sua inutilità si compensano, annullandosi, con le conseguenze dell’inutilità degli altri. La società protegge i suoi veri fedeli, e indubbiamente ha il diritto di farlo, così come ha il diritto di segnare con un ferro rovente la fronte dei solitari, degli eccentrici, dei disfattisti che vorrebbero metterla in contatto con la realtà. Lo sa bene la società che la realtà è intollerabile, perciò insiste nel rinchiudersi nei suoi castelli di vetro. Comunque sia, ragiona lei, non tutti i giorni si presenta l’obbligo di costruire una zattera per fuggire da un’isola che affonda.

Non appena si addormenta lo sveglia la tempesta. Sul cielo nuvolo lattiginoso dell’alba si scuotono le palme sotto il vento improvviso; le onde si lanciano all’attacco come i carri sovietici su Berlino. Povero capitano, la sua punizione è meritata! Nella penombra torbida da cinema muto, Ulf si avvia a tentoni verso la zattera, la quale più che mai sembra un relitto portato a riva dal capriccio del mare, non certo la orgogliosa affermazione dell’ingegno dell’essere che domina le onde procellose.

Sale, allenta i lacci che trattengono a terra il raro insieme e con l’aiuto di una pertica lunga costeggia la riva interna fino al canale che mette in comunicazione la laguna con l’esterno.

Come chi attraversa in barca un parco allagato, raggiunge il mare aperto; dietro di lui spunta il giorno. Lunghe nuvole rosse e viola formano un ventaglio splendente, il cui vertice sta a indicare il punto da cui sorgerà la luce futura; riflessi di incendio scintillano sulla sommità delle onde, la schiuma salta e si scioglie in gocce rosee che rimangono un attimo sospese in aria come farfalle. Ulf Martin si lascia alle spalle le ultime palme a bagno ed emerge al Pacifico violento, trascinato dal vento.

L’isola si staglia nitida contro i fuochi del crepuscolo, come quei quadri che raffigurano un paesaggio tropicale di velluto nero su uno sfondo di ali di farfalla. Mosso dal saliscendi delle onde, Martin vede scendere e salire sull’orizzonte luminoso le palme ormai lontane, pettinate dal vento come chiome, tutte nella stessa direzione. Sulla zattera i frutti e le noci di cocco si sparpagliano e cadono in acqua attraverso i larghi interstizi che separano i tronchi. Col mal di mare, zuppo, derelitto, il navigante trema dal freddo.

Dieci minuti dopo cominciano a cedere le legature della zattera. Ulf Martin vede allargarsi lo spazio tra i tronchi che lo reggono, e per la prima volta dalla sua partenza da Sydney scoppia a piangere, convulsamente. La mia vita avrebbe potuto essere così piacevole, pensa, così tranquilla e soddisfacente; ero giovane e sano; se non avessi ammazzato un ebreo sarei adesso a casa mia, a letto, al caldo.

Tanti sono i prodigi verdi e rossi che non rivedrà più: fichi, copertine di riviste popolari, chalets, tramonti australiani, stelle filanti, autobus, bandiere socialiste, bistecche, cravatte dipinte a mano. Gemendo e pregando alternativamente si illude di riaverli.

Quasi senza rendersene conto si trova in acqua; le ultime a abbandonarlo sono le pretese e le convenzioni. Si abbraccia a un tronco, ma non gli resta più nulla; ormai nemmeno si chiama Ulf Martin. Si impossessano di lui il freddo e i granchi, una specie di sopore simile al sonno; nel sopore lascia la presa e affonda. Se è stato un uomo, lo è stato un attimo soltanto prima della morte.

 

J. Rodolfo Wilcock
Parsifal, Adelphi 1974

© 2023 J. Rodolfo Wilcock - Tutti i diritti sono riservati.

Questo sito fa uso di cookie tecnici per migliorare l’esperienza di navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’utilizzo del sito stesso.